Les Contes d’Hoffmann – alla Scala fino al 31 marzo e in diretta su LaScalaTv

Les Contes d’Hoffmann
dopo 11 anni di assenza,
nuova rappresentazione al Teatro alla Scala

Les Contes d’Hoffmann, il capolavoro incompiuto di Jacques Offenbach, torna alla Scala per 6 rappresentazioni dal 15 al 31 marzo e in diretta su LaScalaTv il 24 marzo dalle 19:15
Dirige il Maestro Frédéric Chaslin, profondo conoscitore di questa partitura che ha diretto più di 500 volte in tutte le versioni esistenti, che propone una nuova versione alternativa all’edizione critica del 2009.
video anteprima Les contes d’Hoffmann
L’atmosfera magica e inquietante dell’opera è resa dal regista Davide Livermore e dai suoi collaboratori; le scenografie sono di Giò Forma, i costumi di Gianluca Falaschi, le luci di Antonio Castro; con un gioco di maschere e di ombre che si avvale dell’esperienza del gruppo Controluce Teatro d’ombre, per la prima volta alla Scala.

Il richiamo alla fascinazione delle lanterne magiche che abitano l’immaginario dell’Ottocento francese ma soprattutto il mondo onirico delle avanguardie del primo ‘900 è messo al servizio di una rappresentazione spietata e attuale degli stereotipi di genere.
Hoffmann resta incapace di vedere l’umanità nelle donne che incontra e che restano per lui caricature di ruoli tradizionali: rispettivamente bambola, vittima, prostituta o musa. Il suo viaggio attraverso ossessioni e tragedie sarà un percorso di morte e rinascita.
Fondamentale il lavoro sugli attori-cantanti, una compagine che unisce alcuni degli artisti più prestigiosi del panorama internazionale a giovani voci emergenti che trovano in questa produzione la possibilità di affermarsi in ruoli importanti.

Hoffmann è Vittorio Grigolo, che allo smalto vocale e al carisma scenico unisce una perfetta dizione francese, accompagnato dallo scettico Nicklausse interpretato en travesti da Marina Viotti negli sfortunati incontri con Olympia, che ha la giovane voce e la svettante coloratura di Federica Guida, Antonia che è Eleonora Buratto, ormai affermata tra le massime interpreti dei nostri anni, e Giulietta che ha il fascino della non ancora trentenne Francesca Di Sauro.

Nei quattro personaggi diabolici torna alla Scala Luca Pisaroni. Nella parte di Stella canta Greta Doveri, tra le più promettenti artiste dell’Accademia scaligera, mentre Alfonso Antoniozzi presta la sua vis comica e la sua personalità a Luther e Crespel.
Completano il cast Yann Beuron come Spalanzani, Hugo Laporte come Hermann e Schlémil, François Piolino come Andrés, Cochenille, Frantz e Pitichinaccio e Néstor Galván come Nathanaël.
Quali Contes?
Les contes d’Hoffmann sono per Offenbach il lavoro di trent’anni, da quando nel 1851 il compositore assiste all’Odéon al “drame fantastique” che Jules Barbier e Michel Carré avevano tratto dai racconti L’uomo della sabbia, Il consigliere Krespel e Le avventure della notte di San Silvestro fino alla sua morte, nel 1880. L’opera, su libretto del medesimo Jules Barbier, resta incompiuta, ma Offenbach lascia comunque una straordinaria quantità di musica. La prima esecuzione ha luogo, vivo l’autore, in un concerto privato nel 1879, ma l’opera è ancora assai differente da come la conosciamo (Hoffmann per esempio è un baritono).

Tra i presenti Léon Carvalho, il vulcanico direttore dell’Opéra-Comique che nel 1881, quattro mesi dopo la scomparsa dell’autore, porta i Contes di fronte al pubblico. Per farlo si affida a Ernest Guiraud, amico di Offenbach e già autore del pesante rimaneggiamento che aveva trasformato la Carmen di Bizet da opéra-comique a opera e che anche in questo caso sostituisce i dialoghi con recitativi. Carvalho impone tagli draconiani e per mantenere la serata sotto le quattro ore sopprime l’atto di Giulietta, che sarà reintegrato nell’edizione del 1904 a Montecarlo in cui compare anche l’aria di Dapertutto “Scintille, diamant”. Ogni teatro propone la sua versione: Gustav Mahler fa sopprimere la cornice formata dalle scene della taverna lasciando solo i tre atti di Olympia, Antonia e Giulietta, mentre Hans Gregor la ripristina per l’inaugurazione della Komische Oper di Berlino nel 1905; nel 1958 Walter Felsenstein fa tagliare i recitativi di Guiraud per tornare al parlato.

Nel 1976 Antonio de Almeida ha accesso alle carte degli eredi: riaffiorano buona parte dello spartito manoscritto, la partitura dell’atto di Giulietta secondo Guiraud, e in seguito le parti strumentali del concerto del 1879. Le edizioni rispecchiano il percorso tortuoso del testo, in cui la fase creativa non era stata meno avventurosa di quella esecutiva. Il primo editore è Choudens, che propone ben 5 edizioni diverse nell’800 cui ne aggiunge nel 1907 una ulteriore che accoglie le modifiche proposte dal direttore dell’Opéra de Monte-Carlo Raoul de Gunsbourg. Due anni prima era uscita presso Peters la versione Gregor in tedesco.
Queste versioni restano il riferimento di tutte le esecuzioni fino a quella di Richard Bonynge del 1971; la prima edizione critica, forte dei ritrovamenti di De Almeida, è dovuta a Fritz Oeser nel 1977, ma contiene diversi interventi creativi e arbitrari; nel 1984 Michael Kaye analizza oltre 350 pagine di materiali inediti andati all’asta da Sotheby’s e acquisiti dall’Università di Yale. Tre anni più tardi la versione originale del libretto presentata da Offenbach all’ufficio della censura riemerge dall’Archivio Nazionale Francese svelando l’esistenza di un finale dell’atto quarto che viene poi rinvenuto tra le carte degli eredi nel castello di Cormatin. Questi ulteriori materiali confluiscono nell’edizione Schott del 1999.
Il musicologo Jean-Christophe Keck presenta infine, nel 2009, una nuova edizione che ambisce a includere tutte le varianti conosciute. Proprio su questa recente edizione si concentrano i dubbi e le ricerche di Frédéric Chaslin:
“La tradizione testuale frammentaria che caratterizza i Contes – spiega Chaslin – ha aperto la strada a un’ardua questione filologica ancora oggi dibattuta. Molti e sostanziali sono i cambiamenti apportati all’originale dai revisori, a partire da Ernest Guiraud, che orchestrò la partitura dopo la scomparsa improvvisa di Offenbach, per arrivare ad André Bloch e Pierre Barbier, autori della produzione di Montecarlo del 1904, e alla tradizione esecutiva fissata delle edizioni Choudens (1887-1907). Fra i tentativi di restauro più recenti, alcuni hanno preteso di accostarsi all’“autentico” Hoffmann sventolando una patente di scientificità che però non è provata dalla reperibilità delle fonti. Mi riferisco alla cosiddetta edizione “definitiva” di Michael Kaye e Jean-Christophe Keck (2009), sulla cui autenticità è legittimo nutrire seri dubbi, tenuto conto degli errori di armonia, di prosodia, di orchestrazione che presenta ma che Offenbach non avrebbe mai commesso. Ho svolto una vera e propria indagine alla Sherlock Holmes (che pubblicherò prossimamente) per smascherarne tutte le attribuzioni arbitrarie. Dopo aver diretto nel corso della mia carriera tutte le versioni esistenti dei Contes, ero davanti a un bivio: potevo continuare a interpretare l’opera secondo la moda del momento, quella della novità e del sensazionalismo, oppure tornare indietro all’Urtext, alla fonte più pura e vicina all’originale di Offenbach. Ho scelto la seconda via, per me la più onesta, coniugando l’edizione Choudens e quella di Fritz Oeser (1976), che ha il merito di non alterare il miracoloso equilibrio che sussiste fra materiale originario e musica spuria”.

La Genesi dell’opera a cura di Emilio Sala
Quando il 10 febbraio 1881 Les contes d’Hoffmann andarono (finalmente) in scena, Offenbach era già morto da circa quattro mesi. Mesi di difficile gestazione e di frenetiche trattative tra il direttore dell’OpéraComique Léon Carvalho, il librettista Jules Barbier e il musicista amico di Offenbach che fu incaricato di portare a termine il lavoro del defunto compositore: Ernest Guiraud. Quest’ultimo, noto per aver rimaneggiatorilanciato la Carmen di Bizet, per la verità in
un’edizione tanto fortunata quanto discutibile, ritocca la partitura in più punti e cerca invano di limitare i tagli imposti da Carvalho.
Tagli invero assai dolorosi. Basti pensare che l’opera venne rappresentata senza l’atto di Venezia (decisione presa meno di una settimana prima della prima) e che alcune pagine irrinunciabili di quell’atto (la Barcarola, ad esempio) vennero spostate altrove.
Ma i patteggiamenti-ripensamenti segnano tutta la lunga e travagliata genesi dei Contes d’Hoffmann, per i quali Offenbach scrisse una quantità di musica esorbitante, sulla quale continuò a ritornare e che non poté mai concludere (non a caso negli ultimi decenni si sono avute ben tre diverse edizioni critiche dei Contes d’Hoffmann: quelle di Fritz Oeser, di Michael Kay e di JeanChristophe Keck). Nonostante i numerosi tagli imposti da Carvalho prima e dopo la morte del compositore, l’opera risultò lunghissima: alzatosi il sipario alle otto e mezza circa, lo spettacolo non si concluse prima di mezzanotte. L’instabilità metamorfica è d’altronde tematizzata nell’opera.

Quando nel 1879 Offenbach presentò in un concerto privato la sua ultima fatica (tra gli invitati c’era anche Carvalho), Hoffmann era ancora un baritono e i quattro ruoli femminili cantavano in modo del tutto diverso. A proposito di questi ultimi e di instabilità metamorfica, va sottolineato che Offenbach pensò sempre di affidarli alla stessa cantante: le tre donne amate da Hoffmann nel passato sono come tre diverse metamorfosi dello stesso ideale (irraggiungibile) che non cessa di affascinare-ossessionare il poeta nel presente.
Come dice lui stesso, la donna che ama (la cantante Stella) è una specie di essere triplice, “trois âmes dans une seule âme”. Il problema è che tutti questi personaggi femminili cantano con
tessiture abbastanza diverse: Olympia (I Atto) è un soprano leggero, Antonia (II Atto) è piuttosto un soprano lirico e Giulietta (III Atto) tende al soprano drammatico. È un po’ come
se Zerlina, Donna Anna e Donna Elvira (il rapporto con il Don Giovanni è uno dei sottotesti dell’opera) fossero interpretate dalla stessa cantante. Ecco perché non succede quasi mai che le volontà di Offenbach siano in questo senso rispettate. Più facile trovare un basso che intoni i quattro personaggi in cui si riconoscono i diversi volti del Male: Lindorf (Prologo ed Epilogo), Coppélius (I Atto), Docteur Miracle (II Atto) e Dapertutto (III Atto).

Dunque una sorta di frammentismo caleidoscopico e di geometria ad assetto variabile sembra invadere tanto il contenuto quanto la struttura di un’opera che non a caso si vuole “fantastica”. È tratta da un autore tedesco celebratissimo, E. T. A. Hoffmann, che fin dagli anni Trenta dell’Ottocento era diventato a Parigi l’emblema stesso del “fantastico”. Le storie raccontate da Hoffmann (inteso come personaggio dell’opera) sono un puzzle abbastanza sconnesso pieno di interruzioni, deviazioni, salti logico-temporali.
Ad esempio nella sua canzone del primo Atto (la Légende de Kleinzach), prima ancora di passare dal piano narrativo a quello rappresentativo (i “racconti” di Olympia, Antonia e Giulietta), Hoffmann canta in una ballata strofica (forma tipica dell’opéra-comique) di sapore
comico-grottesco la storia del folletto-gnomo Kleinzach. Ebbene, all’inizio del terzo couplet, nominando il volto, la figure dello strano essere, la melodia di Hoffmann si incaglia e deraglia: il poeta-narratore si alza di scatto e viene posseduto da una specie di visione della donna amata che attraverso un cammino modulante alquanto erratico raggiunge uno stato di vera e propria esaltazione nella tonalità di la maggiore (la canzone di Kleinzach è in la minore). Il tutto davanti agli astanti che, pur essendo abituati alle bizzarrie del loro amico, appaiono del tutto sconcertati, mentre Hoffmann torna pian piano in sé. Quando attacca il quarto (e ultimo) couplet, la melodia in la minore, pur essendo la stessa dei couplets precedenti, suona in un modo completamente diverso… Queste interferenze, salti temporali e scarti stilistici sono ancora accresciuti dal fatto (troppo spesso trascurato) che Les contes d’Hoffmann sono in prima istanza un opéra-comique.
Nonostante la versione coi recitativi approntata da Guiraud – e anche in questo caso il parallelo con Carmen è d’obbligo – si tratta di un’opera che appartiene a un genere ibrido, in cui sono previste delle parti recitate: un genere che le ultime due opere di Bizet e Offenbach hanno profondamente trasformato e rilanciato in una chiave moderna, ma che per molti versi resta ancor oggi imbarazzante e incompreso. Anche perché tanto Carmen quanto Les contes d’Hoffmann hanno peregrinato per più di un secolo nella versione con i recitativi. Credo che sia giunto il momento di ripensare queste due opere all’interno della drammaturgia “mista” e delle sperimentazioni di un genere (tutto da riscoprire) al quale entrambe devono moltissimo
Note Biografiche Emilio Sala (1959) è professore associato di Drammaturgia e Storiografia musicali presso l’Università degli Studi di Milano, membro del comitato scientifico della Fondazione Pergolesi Spontini e di quello dell’Edizione nazionale Giacomo Puccini, e direttore dei progetti di ricerca della Fondazione Rossini di Pesaro. Si occupa dei rapporti tra la musica e le varie forme di spettacolo, con particolare attenzione all’Ottocento romantico-popolare. È autore di numerose pubblicazioni. Il suo libro Il valzer delle camelie. Echi di Parigi nella Traviata è uscito anche in traduzione inglese. Dal 2012 al 2015 è stato direttore scientifico dell’Istituto Nazionale di Studi Verdiani.